sabato 25 ottobre 2008

Le edicole votive di Alcamo - Li Fiureddi







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Spingo la porta a vetri della biblioteca comunale, un riflesso del sole per un attimo mi sommerge, il solito doppio gemito dei cardini mai oliati e sono dentro. Silenzio. L’ufficio del bibliotecario Roberto Calia è in fondo. Ragazzini consultano pesanti volumi su un grande tavolo rettangolare. Percorro uno stretto passaggio attraverso un labirinto di cinquantamila libri e dietro un tavolo pieno zeppo di libri appare il bibliotecario sorridente. E’ mercoledì e non ha dimenticato il nostro appuntamento per parlare delle edicole votive di Alcamo e dei loro misteriosi furti. Mi stringe la mano e mi indica una sedia. Anche tutto l’ufficio è invaso da libri, gli uni sugli altri, come stalagmiti che salgono dal pavimento, dai tavoli, dalle sedie. Quando parte non si ferma più, la sua voce squillante nelle alte pareti della biblioteca riecheggia come in una grotta. Un raggio obliquo di luce taglia la penombra entrando da una vetrata alle sue spalle. “ E’ la settima che rubano, sti disgrazziati!, ora è toccato alla Madonna dell’Alto Monte, nella via omonima, un dipinto del pittore alcamese Giuseppe Renda (sec. XVIII), ma Alcamo è piena di fiureddi e cappilluzzi e quella della Madonna dei miracoli di Via Ten. V. Manno è stata rimessa al suo posto”. Continua senza mai interrompersi : “ Alcamo è circondata da bellissime edicole votive come in uno spazio sacro magico, per non parlare del centro storico”. Continua come un fuoco scoppiettante: “ sono espressioni devozionali della pietà popolare, proteggono le case da dentro scarabattoli di vetro (li scaffarrati), o fuori, nei muri accanto alle porte o a punta di cantunera, nei vicoli, nella casbah delle viuzze arabe, sotto gli archi, nei cortili, lungo le scalinate, nelle trazzere di campagna. Battezzano il territorio che durante la dominazione araba era pieno di moschee, lo proteggono dal male, salvano dal peccato, rinsaldano la coesione sociale, istituiscono l’identità dei quartieri, mantengono il cosmo domando le forze ancestrali degli elementi, le insidie del caos, mediano il linguaggio tra Dio e l’uomo”. Mentre parla si alza e a memoria estrae da uno degli innumerevoli scaffali il testo di Mariano Coppola Itinerari iconografici in Alcamo e prima ancora di aprirlo cita alla lettera la pagina che sembra aprirsi a un suo tacito comando : “ a nord Alcamo è protetta dalle insidie del mare dalla fiuredda della Madonna dell’Alto Mare sulle antiche mura. Sulla cima del misterioso M. Bonifato la cappella della Madonna dell’Alto Monte intercede verso Dio per tenere a bada le minacce del cielo smisurato. Sulle falde del Bonifato v’è la Madonna Addolorata legata all’antica leggenda del ladro buono (di lu tribonu) : tale edicola era il punto di partenza per la Via Crucis che si celebrava lungo la Via Sacra ( la Va Sacra) percorsa a piedi da tutto il paese, composta da nove cappilluzzi, salita ideale sul monte del Purgatorio per rendere culto ai defunti e si prolungava fino alla cima del Bonifato dove c’era il cimitero dei saraceni, così affermò il Bagolino nel 1500. A est della città vi è la Madonna della Catena, all’entrata di Porta Palermo dove una catena chiudeva il passaggio per Alcamo. A sud-est la Madonna del Riposo, una fiuredda costruita accanto a una fontana con l’abbiviratura, consentiva una sosta ai contadini della contrada (di lu Masciddaru). Poi presso il cimitero dello Spirito Santo l’edicola della Madonna della Pentecoste protegge la soglia tra la vita, la morte e la resurrezione. Infine a ovest, a Porta Trapani, la Madonna di Maria Odigitria (del buon viaggio a Ebron), dopo la peste del 1625 Madonna della Grazia, era invocata dai contadini al crocevia di partenza per l’agro occidentale” (M. Coppola, op. cit., pagg 24-25-26). Chiude il libro facendolo schioccare tra le mani e lo posa sul tavolo. Viene chiamato in un’altra stanza. Mi chiede di aspettare. Mi guardo intorno, penso che è un delitto continuare a tenere la biblioteca in questo posto umido e inadeguato. Essa dovrebbe stare nel Castello dei Conti di Modica, simbolo di Alcamo, insieme al museo etno-antropologico, alla pinacoteca, alle sculture del Rubino che restano nascoste in sottoscale e magazzini. Il castello sarebbe pieno della cultura, dell’arte, della storia, sede di laboratori, corsi, recital, concerti, sperimentazioni. Ma forse il bibliotecario farà la fine dell’agrimensore K. e, per quanto imminente sembri, per imponderabili motivi, non riuscirà mai a stabilirsi nel castello. Ecco che rientra e torna e sedersi : “C’è una commissione apposita che si riunisce per studiare il modo di proteggere le edicole votive da altri furti, per rivalorizzarle, ma ciò, vede, andrebbe fatto in un’ottica nuova, turistica, del centro storico”. Negli anni, invece, esso è stato saccheggiato, violentato: dove c’erano le case agricole unicellulari con le caratteristiche tegole, la calce ai muri, le porte ad arco, ora si ergono spaventose case incompiute di tre o quattro piani. In Piazza Ciullo la Chiesa dello Stellario è stata abbattuta per far posto al Banco di Sicilia, una costruzione in turgido marmo. Lì accanto, dove c’era un abbeveratoio con fontana e teste di leoni ora ci sono i cessi pubblici. Dove c’era l’antica Chiesa della Madonna Odigitria ora c’è il centro congressi Cine Marconi. C’era il Corso VI aprile in blocchi di travertino e ora c’è ancora l’asfalto (Cassaru granni). La Piazza Ciullo era anch’essa anticamente lastricata in storici blocchi di travertino e ora è in uno stile assurdo che non ci appartiene. Il centro storico andrebbe vissuto con una politica coraggiosa di divieti di transito alle automobili e invece siamo sommersi dal traffico, dallo smog e dai clacson, altro che poter gustare la magia delle edicolette votive. In Piazza della Repubblica e in Piazza Bagolino andrebbero fatte due grandi aree verdi e invece l’amministrazione ne ricaverà altri parcheggi. Penso questo mentre ascolto ancora la voce marcata del bibliotecario. La sua faccia è una sagoma che la luce della vetrata rende indistinta : “ le edicole votive erano davvero importanti quando la gente stava in strada, c’era una solidarietà del quartiere, nel mese di maggio si facevano feste alla Madonna con altari, iochi cull’acqua, pignateddi, arvuli di cuccagna, balli e sona”. Le sue parole si perdono riecheggiando nella biblioteca, un moscone ronza ostinandosi a sbattere contro la vetrata oltre la quale una mimosa mostra grappoli di fiori gialli nel pomeriggio assolato. Il tempo sembra fermarsi per sempre. Improvvisamente come da abissi d’oblio mi riaffiorano alla mente vividi ricordi. Sono salito sull’albero dietro il Collegio dei Gesuiti, sotto di me, seduti in cerchio davanti la tendina di casa di mio nonno Sasà, recitano il rosario come ogni sera, io fisso il cielo stellato. Poi tornavamo a piedi, mio padre mi teneva la mano, costeggiavamo il muro altissimo del Collegio spuntando davanti all’Ecce Homo di Via Mazzini: un Gesù triste, insanguinato, in piedi e con le mani legate a un palo da una corda, sembrava fissare un grosso lumino acceso ai suoi piedi che proiettava bagliori rossastri nella cappilluzza. Ci facevamo la croce e dicevamo una preghiera. Ogni sera lo stesso cammino. Mi risuona ancora alle orecchie il rumore delle scarpe di cuoio di mio padre nella strada deserta. Lasciata la cappilluzza salivamo gli scalini a destra. Camminavo stando attento a non mettere i piedi fra le righe dei blocchi di marmo. Nella Via Porta Stella non c’era anima viva. Muri rugosi e vecchi portoni mi passavano accanto mentre seguivo la mia ombra: man mano che ci avvicinavamo alla luce giallastra di una vecchia lampada in un crocicchio della via, l’ombra lunga alle mie spalle si accorciava, poi diventava un punto ai miei piedi e, lasciandoci la lampada alle spalle, ricompariva davanti finché non sbiadiva. Un altro lampioncino si intravedeva e l’ombra ricompariva lunga dietro di me. Ci fermavamo sempre alle edicole votive almeno per farci la croce. In Via Porta Stella dietro il monastero di clausura la strada era buia e stretta, il muro vecchio e alto, avevo paura, ma prima di passare c’era una fiuredda con una fievole lumina. Due colonnine bianche sorreggevano un arco acuto nel quale si vedeva uno strano simbolo: il sole con i raggi, dentro il sole un triangolo e dentro il triangolo un occhio aperto. Più in basso un’immagine della Santa Famiglia. Mio padre diceva un Padre Nostro e mi spiegava che quel simbolo significava Dio che ci protegge. Allora non avevo più paura. La fiuredda è una finestra aperta sull’Assoluto, l’occhio pietoso dell’Onnipotente. A volte passavamo da Piazza Ciullo e ci fermavamo sotto la fiuredda di San Cristoforo, lu marauni, che trasporta sulle spalle oltre un fiume il Bambin Gesù con il mondo in mano. Anticamente un ruscello passava per la piazza. San Cristoforo è il protettore dei viandanti in difficoltà lungo i corsi d’acqua. A settembre noi ragazzini scendevamo sutta u bastiuni a cercare legna da ardere per il falò notturno in Piazza Bagolino, il giorno prima di salire a piedi su Monte Bonifato in pellegrinaggio alla Madonna. Con gli amici prendevamo l’accurzu, un violo per la cima, e parlavamo di incantesimi, posti segreti e apparizioni di turchi. Mio zio Saverio aveva una fissazione per la truvatura che gli avrebbe cambiato la vita e diceva che le pecore che pascolavano in montagna avevano i renti d’oru. Ma prima del falò c’era il Rosario davanti alla fiuredda della Madonna dell’Alto Monte. Lo guidava a Gna Maria con la sua voce roca, la più anziana e venerata del quartiere, sempre vestita di nero e col velo in testa. Aveva gli occhi azzurri. Dava a mia madre le sue erbe medicinali (l’ogghiu ri Ronna Maria) ma non prima di un’altra orazione alla Madonna.

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