sabato 25 ottobre 2008

LA CHIESA INABISSATA SOTTO IL MARE




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Mi siedo a terra nella penombra di Santa Maria della Stella, la prima chiesa di Alcamo costruita dopo la dominazione araba nel sito di Alqamah, oggi quartiere Cappuccini. In questa cella di un metro e mezzo per tre - la chiesa per un periodo divenne convento dei domenicani - il giorno sembra amorfo, molle, infinito come il respiro. Da una piccola fessura filtra un raggio di sole che fende l’ombra, illumina un pezzo di suolo pieno di detriti dove una formica perduta si aggira come in un ciclopico deserto roccioso. Odore di muffa. Nel muro scrostato la scritta sbiadita Viva il Duce. I rumori del quartiere si propagano smorzati come in profondità sottomarine. Una colomba sbattendo le ali si infila in un buco e continua a tubare nel sonnolento pomeriggio con insistenti melodie gutturali che echeggiano ipnotiche nella chiesa vuota. Tra i petali gialli di un tarassaco stentato e un ciuffo di parietaria brilla controsole un filo di una ragnatela abbandonata.
Di Blasi scrisse che nel 1221 questa prima costruzione fu ingrandita dalle famiglie da cui discesero i De Ballis, i Comes, Gentilis e Maurici. Nell’affresco di Santa Maria della Stella, oggi nella chiesa del Rosario, un’iscrizione indica la fondazione della chiesa a prima del 1130, ma notizie certe di essa si hanno solo a partire dal 1308.
Questa chiesa è mistica, piena di solitudine e d’abbandono, senza confini, vertiginosa come l’oceano in una notte di bonaccia, alla deriva nel silenzio eterno. Dimenticarla ci rende tutti più poveri e soli. Il suo silenzio pervade le cose e le riforma, noi stessi non siamo che silenzio del silenzio infinito. Qui dentro il silenzio di Dio ci sommerge, ma la sua assenza è ancora presenza, libertà e destino. La vita è l’infinita melodia di ogni cosa, insieme solenne, tragica, leggera, comica, sublime, però anche tale melodia non è che una scultura del silenzio. Ogni movimento viene dal primo motore immobile, ogni tempo dall’eternità.
Qui pregarono gli alcamesi dopo la dominazione araba, poi Alcamo si inerpicò nell’intricato tessuto viario di Santu Vituzzu, nacquero altre chiese e una nuova chiesa madre.
Sono passati secoli, veloci, lievi come fantasmi, generazioni di alcamesi senza nome, la loro vita indeterminabile ha la stessa consistenza del sordo scorrere di inspirazioni e espirazioni nel mio torace. Nasciamo e moriamo immediatamente risucchiati in un’intercapedine dello spazio-tempo da cui siamo usciti appena un istante fa. Siamo in quanto spariamo, siamo solo un bagliore di luce e in questa frazione millesimale dobbiamo riconoscere la via dell’eternità.
Il passato, ciò da cui proveniamo, ci indica la nostra origine e la direzione del futuro, dobbiamo amarlo e conservarlo. Forse Alcamo nacque sul Bonifato, in un tempo mitico, ancestrale, che non ha niente a che vedere con il tempo dell’orologio, perché è il tempo della fondazione, dell’anima. Forse, come asserisce D’Asaro, sul nostro monte il re dei sicani, Cocalo, vi fondò la sua città imprendibile, Camico, edificata con gli incantesimi del mago Dedalo, fuggito da Minosse che lasciò tutto per punirlo, ma trovatolo trovò la morte, mentre Dedalo, costruito il labirinto e la città di Camico, ormai invulnerabile, si fabbricò le ali, volò verso la luce e vi si bruciò, perché per conoscere la verità ultima bisogna accecarsi, immolarsi in essa. E Camico resta ancora oggi una città fatata, imprendibile, se una schiera innumerevole di archeologi non è mai riuscita a trovarla.
In questa chiesa il silenzio parla: sembra di sentire l’eco di preghiere di secoli addietro, la presenza dei nostri antenati, il fervore di sussurri e invocazioni.
Essa ha anche un portale di tipo chiaramontano dalla forma divina, ma questo non basta a salvarla. Giace abbandonata come un relitto dormiente in fondo al mare.
Al potere non interessa, come non interessa salvare Calatubo o scavare sul Bonifato. L’unica cosa che ha a cuore il potere è perpetuare se stesso. E dalle nostre parti esso non ha la lungimiranza del mecenatismo culturale.
Grazie a Messana, studioso di punta dell’archeologia ad Alcamo, è stato riscoperto l’antico sito del casale arabo Alqamah.
Ha, infatti, rinvenuto numerosi frammenti ceramici di “catini”, grandi scodelle che contenevano i cibi, di sicura datazione e decoro arabi.
Nel 1154 Ibn Idrìs, il grande geografo della corte di Ruggero, scriveva nel suo Nuzhat al-mushtàq: “ Alqamah è un casale confortevole, ha fertili terreni coltivabili, un mercato molto frequentato, artigiani e manifatture; esso dista da Mir.gia, a settentrione, solo un miglio. Mir.gia, un castello di piccole proporzioni ma ben fortificato, ha un borgo, abitazioni e terre ubertose in tutta la loro estensione”.
La monarchia normanna seppe tessere una sapiente trama tra le culture araba, greca e latina facendo della Sicilia il centro del mondo. In quel caso il potere fu illuminato da un’irripetibile saggezza e la convivenza nella diversità generò immensi capolavori d’arte.
Circa trent’anni dopo il passaggio di Idrìs, nel pomeriggio del 28 dicembre del 1183, il pio andaluso Ibn Gùbair, di ritorno dal suo pellegrinaggio alla Mecca, dopo aver attraversato anche la valle del Nilo, l’Higiàz, l’Iraq e la Siria, giunse ad Alcamo. Aveva trascorso il Natale a Palermo, restando impressionato dallo splendore della città che i musulmani chiamavano al-Madìnah, poi, quella mattina, era partito a cavallo con un gruppo diretto a Trapani, per l’ultimo imbarco di ritorno verso la Spagna.
Annotò nella Rihla (itinerario del viaggiatore): “ Sul nostro cammino si seguivano senza interruzione i villaggi e le masserie, vedevamo campi coltivati così fertili che li paragonammo alla campagna di Cordova, se pure non erano ancora migliori. Durante il viaggio passammo una notte in una borgata detta Alqamah, grande ed estesa, con mercati e moschee. I suoi abitanti e quelli delle masserie che si trovano lungo tutta questa strada sono musulmani. Di là partimmo sul fare del giorno di sabato 29 dicembre, e dopo un breve tratto passammo presso un castello detto Hisn al-hammah (Castello dell’acqua termale). Passando presso una sorgente calda che incontrammo nella via, scendemmo dalle cavalcature e ristorammo i corpi col prendervi un bagno”.
Allora la chiesa forse era ancora in costruzione o sarebbe stata costruita di lì a poco, perché il dominio musulmano era finito e i cristiani potevano professare fede apertamente accanto agli islamici che comunque ad Alqamah erano ancora la stragrande maggioranza, anche se le popolazioni da tempo si andavano assimilando.
Quei nostri padri arabi portarono in Sicilia la loro sapienza dell’irrigazione e segnarono grandemente la gastronomia con il riso, gli spinaci, le melanzane, i carciofi, le pesche, le albicocche, gli agrumi. Resero il nostro gusto più esotico con lo zucchero, la pasticceria, le acque profumate, gli estratti aromatici, le spezie e la pasta secca.
Penso a tutto questo mentre la luce del pomeriggio piano muore e le ombre si allungano dentro la chiesa. La colomba è volata fuori dal suo buco nero verso l’ultima luce del giorno, nella direzione degli orti, dove ancora gli agrumeti e una vecchissima “senia” ci parlano di quel lontano tempo islamico.
Nel silenzio sconfinato della chiesa inabissata nell’oceano del passato, mi raggiunge una voce che cresce come da una distanza remota, è un erbivendolo che passa su qualche trabiccolo a ruote, “abbanniando” la merce. La sua voce è prolungata, ora lenta e grave, ora accelerata, ritmica, sensuale, abbandonata, pietosa, strascicata, lamentosa, severa, sciamanica, estatica, spiraliforme, non è più la voce di un venditore ambulante ma la chiamata del muezzin dall’aldilà, dal tempo irrevocabile, arrivata fino a me dalla magia di un passaggio segreto nell’eternità.
Vedo il fermento delle preghiere nelle moschee di Alqamah, fedeli fuori in ginocchio nei tappeti a terra in direzione della Mecca, il sole avvampa di rosso le tende e le bancarelle dei colorati mercati pieni di merci e di spezie. Ecco che una ciurma di bimbi scuri, scalzi, in tuniche bianche, corre gridando verso i forestieri che arrivano a cavallo, dinoccolati nella strada polverosa, mentre donne che raccolgono l’acqua a una fontana si girano leste con occhi fiammeggianti e si chiudono il volto nei veli. Come un incantesimo è di nuovo il crepuscolo del 28 dicembre del 1183 e Gùbair, con un gruppo di altri musulmani viaggiatori, arriva ad Alqamah, ha la gola arsa, fame e stanchezza. Smonta da cavallo e si rinfresca alla fontana.
Mentre sono accompagnati a un fondaco e poi alla taverna, per un attimo, i suoi occhi incrociano quelli neri, accesi, di una giovane donna che si allontana nei suoi veli con un’andatura fiera di berbera, e lo scuote un sussulto.
Ora, seduti, bevono e mangiano, insieme agli alcamesi islamici, il t’àam (couscous) dal catino al centro del tavolo con la forchetta di Allah (pollice, indice e medio). Parlano del pellegrinaggio alla Mecca, di merci, del Re Guglielmo il Buono, degli “adoratori della croce” e di donne.
Ibn Gùbair è giovane, alto, ha una barba scura e un volto che cambia repentinamente espressione dal riso sensuale alla severità ieratica del pio. Tutti lo ascoltano mentre racconta del naufragio a Messina, della Mecca, della chiesa detta dell’Antiocheno di al-Madinah veduta pochi giorni prima: “E’ il monumento più bello del mondo, Allah ci tenga lontano dalla suggestione di quell’edificio e, col suo favore, lo possa nobilitare presto alla chiamata del muezzin!”. Poi con occhi più lucidi e lascivi descrive le donne cristiane viste il giorno di Natale: “All’aspetto sembrano musulmane, parlano arabo correttamente, si ammantano e si velano. Uscivano in abiti di seta, ricamati in oro, avvolte in drappi splendidi, velate con veli a colori, calzando scarpe dorate. Procedevano verso le loro chiese, o meglio covili, adorne di ogni ornamento muliebre musulmano, di gioie, di tinture e di profumi. E’ proprio come dice il poeta: Colui che un dì entra in chiesa, v’incontra antilopi e gazzelle!”. Attorno al tavolo tutti sghignazzano contorcendosi, ma Ibn Gubair è già ritornato severo: “Allah ci allontani dal futile e dalla vanità dello scherzo perché Egli, gloria a Lui, vuol essere temuto, Egli è il Condonatore!”.
Forse durante la notte, Gubair, da una fessura nel tetto del fondaco, contemplò una stella e, prima di cadere nel sonno, pensò alla ragazza alcamese della fontana, che non avrebbe rivisto mai più.
Il sipario del tempo si è richiuso, l’incantesimo svanisce, un brivido di freddo mi risveglia. Del casale arabo di Alqamah non restano che pochi frammenti di ceramica e la sua storia riemersa grazie al lavoro tenace dell’archeologo Ignazio Messana.
Adesso il mio amico è sulle tracce di Mir.gia, il castello misterioso inabissatosi con tutto il suo borgo ad appena un miglio da Alqamah.

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